Gentile Dr. Foti, sono un appassionato lettore delle opere di Alice Miller, che ho trovato davvero illuminanti su una serie di questioni, a cominciare ovviamente da quelle strettamente personali, fino a quelle più generali che riguardano l’intera società, in tutti i suoi aspetti. Vorrei chiederle se anche lei, per la sua esperienza, come sottolinea la Miller, ritiene di grande importanza che il terapeuta mostri indignazione nel sentire il paziente raccontare le proprie esperienze traumatiche (dalle violenze fisiche – botte, schiaffi, sculacciate – alle umiliazioni, prese in giro, colpevolizzazioni, ecc.); le chiedo poi se questa indignazione possa risultare utile anche se non propriamente sentita da parte del terapeuta ma, in un certo senso, costruita artificiosamente. Infine le pongo una domanda, che mi pare comunque collegata alla precedente, e cioè se anche lei ritiene necessario un atteggiamento da “avvocato difensore”, e quindi di “non neutralità”. Le pongo queste domande perché sto affrontando una psicoterapia, e avendo letto molti scritti della Miller, condividendo il suo pensiero, mi sono reso conto di non aver trovato nel mio terapeuta queste caratteristiche, e questo mi pone in serio dubbio sulla decisione di continuare con lui o se cercarne un altro. Spero di essere stato chiaro nell’esporle le mie perplessità, e la ringrazio per la sua risposta.
Cordiali saluti
Ernesto
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La neutralità dello psicoterapeuta
Claudio Foti
L’indignazione dello psicoterapeuta ha senso se nasce da una sua identificazione empatica con le vicende traumatiche del paziente, ovvero da una capacità di guardare il mondo con gli occhi e con la mente del paziente quando egli era bambino o adolescente. Lo psicoterapeuta, in altri termini, deve avere la sensibilità emotiva e la competenza psicologica per tentare di percepire e comprendere autenticamente quanto questo bambino ha sofferto, quanto è stato non rispettato, lasciato solo, umiliato, ingannato.
“Pare che i pazienti – scriveva Ferenczi – non possano credere, o almeno non completamente, alla realtà di un avvenimento se l’analista, unico testimone del fatto, mantiene un atteggiamento freddo, anaffettivo e, come i pazienti lo definiscono, puramente intellettuale, mentre gli avvenimenti sono di natura tale da suscitare in qualsiasi spettatore sentimenti e reazioni di rivolta, di angoscia, di terrore, di vendetta, di lutto, e propositi di un aiuto sollecito onde rimuovere o distruggere la causa o il responsabile; e poiché si tratta generalmente di un bambino, di un bambino ferito (ma anche indipendentemente da ciò), vi è il sentimento di volerlo confortare affettuosamente ecc., ecc. Si può dunque decidere di prendere veramente sul serio il ruolo di osservatore benevolo e soccorrevole , vale a dire di lasciarsi effettivamente trasportare con il paziente in quel dato momento del suo passato” [S. Ferenczi (31 gennaio 1932), Diario clinico, Cortina, 1988, p.75]
Probabilmente anche lei, come i pazienti di cui parlava Ferenczi, vorrebbe una partecipazione emotiva maggiore del suo terapeuta alle esperienze di grande sofferenza che ha vissuto nell’infanzia o nell’adolescenza. Spero che abbia comunicato o intenda comunicare questa insoddisfazione al suo terapeuta. Solo così potrà esserci un’interazione più schietta e significativa tra di voi, solo così il suo terapeuta potrà spiegare utilmente il suo punto di vista ed eventualmente recuperare una maggiore comprensione emotiva oppure mostrare più chiaramente un atteggiamento freddo, anaffettivo rispetto all’ascolto del trauma o addirittura una tendenza ad identificarsi con gli adulti che hanno mancato piuttosto che con i suoi bisogni di bambino. Ed in questo caso toccherà a lei trarre le conseguenze necessarie.
La partecipazione alle vicende di profonda e reale sofferenza del paziente non può essere comunque costruita artificiosamente. Non ha assolutamente alcun senso l’indignazione recitata. Anche quando tende ad essere giustificata “a fin di bene”, anche quando viene praticata in piccole dosi, l’inautenticità – intesa come finzione e teatralizzazione di sentimenti – è in ogni caso controproducente nelle relazioni interpersonali significative: nella coppia, con i figli, con i bambini, con i pazienti. L’inautenticità appartiene al registro dell’inganno, della manipolazione, della perversione. È l’autore della violenza che necessariamente ha bisogno della finzione e della negazione per occultare il suo operato. Il terapeuta non può neppure momentaneamente e parzialmente seguire questa strada. Egli cerca, in modo mai scontato e sempre perfettibile, la verità, la verità psichica e la verità storica. “Un sano sviluppo mentale – afferma Bion – sembra dipendere dalla verità come l’organismo dipende dal cibo. Se la verità manca o è incompleta, la personalità di deteriora.” [W. R. Bion (1965) , Trasformazioni, Armando Roma, 1973]. In psicoterapia il fine non giustifica i mezzi, perché i mezzi (l’empatia, l’autenticità, il rispetto dei sentimenti e della persona …) sono essi stessi il fine.
Lo psicoterapeuta in ogni situazione, ed in particolare quando è impegnato in trattamenti di soggetti traumatizzati, deve diventare l’”avvocato difensore” del paziente, tenendo conto delle sue esigenze infantili e delle potenzialità evolutive che sono state attaccate e compromesse dalle risposte inadeguate degli adulti che sono entrati in relazione con lui. In questo senso lo psicoterapeuta non può essere neutrale, perché egli tenta di ascoltare e rileggere l’esperienza di vita del paziente assumendo come parametro fondamentale i bisogni e le risorse del paziente, il suo motivato punto di vista, che nel passato non venne compreso, le sue legittime istanze che furono fraintese o calpestate, le sue fondate proteste che non vennero ascoltate o non vennero neppure espresse.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con l’atteggiamento accomodante ed opportunista dello psicoterapeuta che tende a dare sempre ragione al paziente, perché non sa differenziare in lui i bisogni assertivi dai bisogni autoreferenziali, l’autostima realistica da quella narcisistica e grandiosa. Analogamente il terapeuta tenta di distinguere la necessità del paziente di esprimere fino in fondo la rabbia per le ferite subite come mezzo per aumentare la consapevolezza della propria storia e la tendenza a manifestare una rabbia narcisistica per l’incapacità di accettare la realtà, così come cerca di non confondere l’esigenza di terminare la psicoterapia perché un cammino è stato compiuto o una tappa significativa del cammino è stata realizzata, dall’esigenza difensiva di interrompere la terapia per evitare il confronto con pezzi non elaborati della propria storia di sofferenza. Il terapeuta appoggia il primo elemento e cerca di contrastare in modo attento e intelligente il secondo.
Lo psicoterapeuta può assumere, come dice Alice Miller, la funzione di “avvocato difensore” del paziente senza assomigliare alla larga schiera di avvocati disposti a patrocinare qualsiasi causa di fronte ad un cliente disposto a pagare. Non c’è psicoterapia efficace del trauma senza la disponibilità ad abbinare sostegno e vicinanza emotiva al paziente con la capacità di contrastare gli ostacoli che egli frappone al suo percorso di acquisizione della consapevolezza circa cosa gli è stato fatto nella situazione traumatica e circa cosa egli stesso ha fatto per reagire a quella situazione. Dunque lo psicoterapeuta dovrebbe riuscire ad alternare un costante impegno ad assumere il punto di vista del soggetto, reso impotente e perdente dal trauma, con la capacità di conflittualizzare adeguatamente le reazioni difensive di questo stesso soggetto, caratterizzate da illusione, onnipotenza, tendenza all’evitamento, alla rimozione, alla dissociazione della sofferenza.
Lo psicoterapeuta dunque non può essere neutrale: i bisogni evolutivi del paziente e la crescita della consapevolezza della vicenda storica e del mondo interno del paziente stesso sono i suoi riferimenti Egli partecipa emotivamente in modo autentico alla rielaborazione della vicenda personale del paziente. Si può indignare ed anche commuovere, ma mantenendo comunque la forza mentale di tenere sempre presente il campo emotivo e relazionale che si crea nella relazione psicoterapeutica e di orientare conseguentemente la rotta verso la consapevolezza e verso il confronto con la realtà.